Ogni Primo Maggio si rinnova la riflessione sul valore del lavoro. Un lavoro che spesso finisce in prima pagina accompagnato dalla parola «morte». Tanto c’è da fare, poco è stato ancora fatto. Ma quest’anno è a mio parere urgente affrontare anche un altro tema: quello del lavoro dei giornalisti, schiacciati tra la crisi del mercato editoriale e la spinta sempre più invadente delle nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale.
Mai come oggi il giornalismo vive una fase di transizione così radicale. Redazioni sempre più piccole, compensi ridotti, precarietà diffusa e, dall’altra parte, algoritmi sempre più raffinati in grado di scrivere articoli, sintetizzare informazioni e imitare lo stile umano. In questo scenario complesso, l’identità stessa del giornalista rischia di sfumare, lasciando spazio a dubbi profondi sulla sua funzione e, soprattutto, sul suo futuro.
Il giornalismo professionale non è solo un mestiere: è una garanzia di democrazia. Il giornalista non è un semplice fornitore di contenuti, ma un mediatore fondamentale tra le istituzioni e la società civile, un garante della trasparenza, della verità, della libertà.
Per questo lo Stato non può e non deve restare spettatore. È necessario un intervento deciso e mirato per sostenere una professione sempre più fragile, attraverso leggi sul lavoro dignitose, tutele certe, incentivi alle imprese editoriali che investono in qualità e professionalità. Ma anche attraverso normative chiare che delimitino il ruolo delle tecnologie emergenti, perché non si sostituiscano al giornalista, bensì ne diventino un supporto consapevole e regolato.
Celebrare il Primo Maggio oggi, dunque, significa anche ricordare che la libertà di stampa e un giornalismo equamente retribuito e tutelato sono condizioni irrinunciabili per la salute di ogni democrazia. Perché dietro ogni articolo, dietro ogni notizia verificata, c’è ancora e ci deve essere sempre un giornalista libero, indipendente e valorizzato.