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Non funzionano le Iene o i giornali?

In questa Regione (la Sicilia), che colleziona record negativi e maglie nere in ogni settore, un assessore si dimette perché in diretta tv non riceve e tutela due disabili. Un gesto da tedeschi o norvegesi. E va benissimo, ma siamo d’accordo almeno che è assurdo?“. A scriverlo è la collega Sandra Figliuolo in un post su facebook. Un’affermazione seguita da tante altre reazioni di giornalisti. Come quella del collega Gianpiero Casagni che pone due quesiti per nulla banali: “Ma è normale che la gente si dimette con Le Iene e non si dimette per merito dei giornali? Cosa non funziona: le Iene o i giornali?“. Non è facile dare una risposta. Almeno nell’immediato. Per chi si fosse perso l’antefatto: è bastata una trasmissione delle Iene prodotta da Mediaset per determinare le dimissioni di un assessore regionale e del direttore dell’Unar. Non entro nel merito delle vicende. O meglio, non è l’oggetto della riflessione che intendo portare avanti qui. La mia attenzione è rivolta ad un altro aspetto: il ruolo dell’informazione. E’ innegabile che dalla carta stampata ai giornali on line, si stia attraversando un momento difficile e tormentato. Un po’ come sta avvenendo per un altro ambito della nostra società: la politica. Se in quest’ultima i problemi maggiori sono legati alla mancanza di credibilità e alla distanza, alle volte siderale, dai problemi della gente, nell’altra lo stato di crisi viene ricondotto ad un problema economico, di vendite e di pubblicità. Sia politica che giornalismo sono tuttavia accomunate dal concetto di rappresentatività, con sfumature ovviamente diverse, che viene a mancare. 

Temo i giornali più di centomila baionette“. Mi è capitato tantissime volte di leggere questa frase in articoli o citazioni sul giornalismo e sulla professione. Nell’immaginario collettivo, fino a qualche tempo fa, la libertà di informare, ficcanasare, svergognare e anche sbagliare avvolgevano la figura del cronista. Oggi qualcosa sembra essere cambiato. Almeno nel sentire comune. Quel ruolo di critica e di investigazione che l’informazione è chiamata ad esercitare è ristretto sempre più tra l’incudine degli spazi a disposizione e il martello di giornali in cerca di identità e lettori. E spesso a vestire i panni del “cronista” non è un giornalista. Il confine tra informazione e intrattenimento è diventato così labile da avere portato alla luce un nuovo termine: l’infotainment. Quella sorveglianza naturale che si dovrebbe esercitare tanto sui grandi eventi quanto sul piccolo caso nei giornali è gradualmente venuta meno. Ovviamente ci sono le eccezioni e queste vengono riconosciute – e premiate – dal lettore che si sente “rappresentato”. E scatta un meccanismo di fidelizzazione. Da qui l’autentica linfa vitale per i giornali. 
Il lavoro di inchiesta richiede tempo, approfondimenti, ricerche e studio. Ed è qui che la macchina si inceppa. Penso alle piccole e medie realtà. Quanti giornali oggi dispongono di un cronista pagato per scrivere con un regolare contratto? Pochi. Ma ci sono. Ma quanti cronisti possono dedicarsi al lavoro di inchiesta senza avere il fiato sul collo nel dover riempire – ogni giorno – pagine di quotidiano per la cronaca spicciola? Non ho dati certi. Ma credo che il numero sia davvero molto esiguo. Tanto del lavoro viene scaraventato sull’unica forza su cui contano oggi i giornali: i collaboratori. Pagati pochi euro ad articolo e senza tante (?) garanzie. Davvero crediamo che questo sistema possa garantire il controllo del potere? “Se in America il giornalismo è il cane da guardia del potere, in Italia è il cane da compagnia. O da riporto“. A dirlo è Marco Travaglio nel libroLa scomparsa dei fatti“, facendo comunque riferimento al giornalismo televisivo. Al di là della simpatia o meno che può suscitare il collega, credo che questa affermazione riassuma per buona parte lo stato di salute dell’informazione, almeno nelle piccole e medie realtà.
Il consiglio dell’Ordine dei giornalisti di Sicilia, cui faccio parte, da anni lavora per individuare situazioni di sfruttamento. Non sempre è facile risalire ai reali compensi, né – in alcuni casi – avere informazioni chiare dagli stessi direttori. Si sono avviati nel tempo diversi procedimenti disciplinari e in alcuni casi anche esposti alla Procura. Un lavoro meticoloso che non può né deve cercare clamori particolari. Sia per il lavoro di indagine che per la tutela dei colleghi che denunciano. Sì, perché in tanti cominciano ad alzare la testa. Si sta cercando di dare sempre più spazio a quella Carta di Firenze. Deontologia e precarietà nel lavoro giornalistico, una carta approvata nel 2011 in memoria di Pierpaolo Faggiano ma che oggi sembra essere ancora poco visibile. 
Quando parliamo di informazione parliamo anche di democrazia. Un bene inestimabile che non possiamo perdere tra jingle, montaggi accattivanti e urla.

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