Giornalisti digitali e giornalisti della carta stampata
Leggevo su “Il futuro dei periodici”, un post che evidenzia la differenza tra giornalista della carta stampata e giornalista digitale. Viene citata un’intervista a Troy Young, capo del digitale nei periodici di Hearst negli Stati Uniti (Cosmopolitan, Esquire, Harper’s Bazaar). Si legge:
«Un giornalista digitale non pensa solo al contenuto ma al contenuto e alla distribuzione, insieme. Quando ti siedi con i giornalisti giovani, senti che dicono cose come: “Oh, sì: quel post ha funzionato, fantastico; l’altro, invece, non ha funzionato per niente”. Quando invece ti siedi con gli altri giornalisti, senti questo: “Questa è una buona idea”. La differenza tra i due atteggiamenti è enorme».
Cosa fare allora? Il New York Times ha pensato bene nel 2011 di introdurre in redazione la figura del Social Media Editor. A prendere questo incarico è stata la giornalista Jennifer Preston. Il suo compito: aiutare i colleghi ad utilizzare i social media per la segnalazione, la pubblicazione e la costruzione in tempo reale di una community attorno a quella che era la stessa produzione del giornale.
Per non andare troppo lontano, si può anche parlare della collega Anna Masera, nominata Social Media Editor per La Stampa. Lei è anche l’autrice di una bozza di “social media policy” elaborata per il quotidiano torinese. Nella premessa si legge:
Tutti i giornalisti de La Stampa sono incoraggiati ad avere un account sui social networks e sono invitati a sperimentarli e a utilizzarli per lavoro. […] Tuttavia, poiché le attività di interazione e socializzazione di un giornalista che rappresenta il giornale sui social networks mettono in gioco l’immagine della testata, serve un decalogo di comportamento.
Qui potete leggere il documento.