La notte e la buona stella su via Lincoln

Ieri pomeriggio rivedevo in balcone alcune foto conservate nella memoria di un vecchio telefonino. E tra tutte mi sono soffermato su questa:
L’ho scattata al termine di un contratto a tempo determinato. Non ricordo adesso la data. Nel trasferirla dal telefonino al pc ho perso i tag di riferimento. L’ultimo giorno per un contrattista – precario – è sempre molto particolare: sai che finisci ma non sai quando potrai riavere l’opportunità di un contratto. E per la mia generazione, trentenniquasiquarantenni con la paga che non paga, la speranza è ormai diventata un’abitudine. Tornando alla foto, mi sono accorto che ad ogni fine contratto ho uno scatto della facciata del palazzone di via Lincoln 21. Un posto che avverto e a cui ho conferito nel tempo dimensioni che vanno al di là del luogo di lavoro.
In fondo il “Giornale di Sicilia” è anche una dimensione esistenziale. Per un collaboratore o un precario il nome di questa testata assume un colore e un sapore assai diverso rispetto a chi si muove da stabilizzato all’interno della redazione.
Una volta entrati nei circuiti produttivi di questa realtà editoriale, la prima cosa che comincia a fare parte della vita professionale, e non solo, è il senso di appartenenza. Chi lavora da precario o collaboratore al Giornale di Sicilia o anche chi lo ha abbandonato per scelta, necessità o virtù, vive nel tempo una strana dimensione del possesso. Non è tanto il Giornale di Sicilia, in quanto azienda, a esercitare questa dimensione. Ma la testata. Non tutti, ovviamente, condividono questo sentire. Ma diciamo che per buona parte di coloro che passano – o sono passati – dal quotidiano di via Lincoln il legame che si instaura è particolare: genera rabbia, rancore, delusione, amarezza ma lo si ama. Ci si ritrova ogni giorno ad avere a che fare con il Giornale di Sicilia. Come un amante tradito, il tentativo di riconquista è affidato al proprio lavoro, in discussione c’è anche parte di sé. Sì, perché in fondo si sa di non essere mai veramente parte di ciò di cui, invece, ci si sente parte. Molti relegano questo sentimento proprio alla dimensione precaria del rapporto di lavoro: “Una volta assunti si cambia e ci si dimentica questo sacro fuoco“. Un’affermazione che risuona come una stanca litania. Stanno così veramente le cose? Difficile dare una risposta.
Di certo decine di colleghi giornalisti precari e collaboratori sono quotidianamente in giro per coprire fatti di cronaca, per cercare notizie. Tutto, molte volte, nel nome di alti ideali. Anche quando quelle trenta righe o quella breve sono costate il quadruplo del compenso previsto. Per alcuni colleghi non c’è caldo né freddo, non c’è pioggia né vento. Né domeniche, né giorni festivi. Macinano chilometri e ore di telefonate, e sono il volto di una testata tra la gente.
Mi avvio, insieme ad altri colleghi, alla conclusione di un contratto a tempo determinato molto particolare. Dopo 157 anni il “Giornale di Sicilia” sarà venduto alla Ses, società editrice della Gazzetta del Sud (al momento c’è stata la firma del preliminare). Sappiamo tutti ben poco del futuro che ci aspetta. Le evoluzioni, le sinergie, le dinamiche aziendali… al momento non c’è molto da dire. E ancora meno sappiamo noi che viviamo la dimensione dell’attesa posizionati lungo un confine dai margini inquieti. Il timore è quello di diventare dei novelli Giovanni Drogo all’interno della Fortezza Bastiani. Ma ho sempre creduto alla storia della “buona stella” su questa testata. E su chi ne fa parte, forse più di altri.

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